sabato, ottobre 8

"Maria Full of Grace" di Joshua Marston







I film stile documentario, i "film vèritè" in generale, non sono tra i miei preferiti.
D'altra parte, quando sono di buona fattura, espletano una delle funzioni primarie del Cinema :

Aprire una finestra su altri mondi, altri luoghi, raccontarci una realta',

rinchiudere un'intera esistenza in due ore scarse. Martson riesce nell'impresa,
concentrandosi prima sulla quotidianita' di Maria, poi espandendosi sulla "figura
sociale" delle "mule" (mala traduzione di, "burrier", gioco di parole tra "burro",
cioe' asino/mulo e "corrier", cioe' ovviamente corriere), povere donne che
fanno di necessita' virtu' trasportando droga, a rischio della propria vita e della
galera, dalla disastrata colombia agli USA.

Maria subisce la schiavitu' di un lavoro alienante e sottopagato, incastrata
dalle responsabilita' verso la famiglia, madre e sorella con bimbo a carico,
sognando un futuro migliore nonostante la desolazione che la circonda.
La notizia di essere incinta innesca il resto della vicenda, l'offrire il
suo corpo per trasportare la polvere, con tutti i rischi del caso.
E' un universo matriarcale : gli uomini o sono ragazzini (il suo ragazzo),
o sono rappresentanti dell'oppressione, come il caporeparto o il trafficante.

La scena che mi ha colpito, anzi direi inquietato e disturbato, e' quella dei "preparativi",
l'addestramento (Maria inghiotte chicchi d'uva grossi come palline da pingpong)
e la successiva ingestione degli ovuli veri e propri, sotto il silente controllo
del boss e dei suo sgherri.
Non so' se il titolo "religioso" o la locandina mi hanno influenzato in
questo senso, ma la "cerimonia" aveva un non so' che di religioso,
con le capsule quali novelle particole della Chiesa del traffico internazionale.
L'ingestione, questa "intrusione" nel privato di queste donne/madri/ragazze,
mi ha indotto lo stesso disgusto che provo nel vedere (sempre nella
trasposizione filmica, intendo) uno stupro, una violenza sessuale.
Ed effettivamente, in forma simbolica, e' la stessa cosa:
Per il cartello, Maria e le altre sono solo corpi, contenitori utili
per il trasporto e nient'altro, come dimostra come viene trattato
il corpo di Lucy dai "contatti" in USA. E' violenza, e' comunque violenza.

Efficace, inoltre, la rappresentazione della "Terra Promessa", gli Stati Uniti,
immaginati come il paese dei balocchi, ma la cui realta' e' quella tipica
dei migranti: La sorella di Lucy, che ricorda le voci al telefono dei suoi parenti,
a quanto erano felici per lei, che era andata via, mentre lei avrebbe voluto essere
li' con loro. L'attaccamento alla propria terra, alle proprie radici,
per quanto la vita possa essere dura, come quando
Maria paga Don Fernando per riportare il corpo di Lucy in Colombia....

Tutto questo rende ancora piu' intenso il distacco finale della protagonista,
nel tentativo di dare una vita migliore all'essere vivente che sta' crescendo
dentro di lei.

La regia non si concede particolari virtuosismi ne' sperimentazioni di sorta
(e non che non si possa osare perche' costretti dal genere, penso a
"City of God", per esempio), ma ha il merito di non far perdere mai ritmo
alla storia, di rimanere concentrata sulla vicenda senza perdersi in introspezioni
psicologiche o divagare in constatazioni morali.
La camera ci mostra, impietosa, uno scorcio di mondo a noi vicino e allo
stesso tempo lontano, in cui la sopravvivenza e' l'unica legge.
Menzione d'onore per Catalina Moreno, l'interprete di Maria, splendida e
tragica, innocente e caparbia, da innamorarsi. Bello.

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